On.le Luigi Muro
On.le Sig. Ministro per la Giustizia
Avv. Prof. Paola Severino
Il suo intervento sul regime carcerario lascia ben sperare : no a condoni, sì a interventi di sistema. Che si ricominci finalmente a parlare dell’ormai desueto termine “riforme”? E’ una bella speranza per tutti.
Per ridurre il numero (e le pene) dei detenuti non occorre varare indulti o amnistie, ma consentire un più largo uso del braccialetto elettronico.
Oggi i detenuti nella carceri italiane sono oltre 67.000. Essi costano allo Stato circa 400,00 € al giorno. Un fiume di denaro: quasi 10 miliardi di euro. Di essi, il 28% è in attesa di giudizio.
Le statistiche, a cinque anni dall’indulto, sono abbastanza rassicuranti: solo il 30% è tornato a delinquere. Mentre il dato è capovolto per coloro che scontano tutta intera la pena: ben il 70% torna a commettere delitti nello stesso arco temporale. Ciò a prova quel che è risaputo: le carceri, ignobilmente sopraffollate, sono una scuola di criminalità e non, come vuole la nostra costituzione, un luogo di riabilitazione.
Quanto costa, invece, una detenzione in casa propria con il braccialetto elettronico? Secondo le stime più attendibili, circa 25 euro al giorno (compreso i controlli remoti e gli eventuali sopralluoghi).
Allora, svuotiamo le carceri? Cum grano salis.
Il carcere deve avere carattere assolutamente di emergenza e deve riguardare solo coloro che sono pericolosi per la società. Quanti sono? Senz’altro una minoranza.
Al contrario, il regime di detenzione domiciliare deve divenire la norma. Per diversi buoni motivi. Primo, la detenzione in attesa di giudizio è una patologia che va combattuta: troppo arbitrio da parte dei giudici e spesso nessuna minaccia per l’ordine pubblico. Gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, oltre a costituire una diminuzione di una poco lodevole prassi, sono efficaci in caso di inquinamento di prove, di tentativo di fuga, di reiterazione del delitto. Quanti dei quasi 20.000 detenuti in attesa di giudizio costituiscono davvero un pericolo per la collettività? Meno di un terzo.
Una forma alternativa (o parallela) agli arresti domiciliari può essere il lavoro gratuito presso una comunità no profit o in un’azienda iscritta ad apposito albo ministeriale. E, in caso di mancata partecipazione al lavoro, o si paga una retta, o si torna in carcere.
Così i detenuti che sono negli ultimi tre anni di pena (27%, pari a 18.000 unità) e che hanno una buona condotta carceraria (e che non siano, anche psicologicamente, socialmente pericolosi) possono beneficiare delle misure detentive a casa, se non della libertà diurna. Lo stesso per coloro che hanno scontato almeno un terzo della pena e hanno i requisiti di buona condotta e sono innocui per la libertà degli altri.
In questo modo, altro che stanziare soldi per la costruzione di nuove carceri ! Occorre, semmai, manutenere e rendere civili per la popolazione carceraria rimanente quelli in uso.
Se si comincia a fare ciò, si passerà ad un risparmio di spesa pari a circa 4 miliardi all’anno.
Ciò diminuirà sensibilmente anche il carico di lavoro delle guardie carcerarie che sono comunque in carenza di organico, che potranno essere facilmente collocate, previo esame, sotto altre forze dell’ordine e potenziare la vigilanza dei territori a rischio, in modo da prevenire le azioni delittuose.
Insomma, la detenzione sarà di norma a casa, lavorando o pagando. Il carcere è utilizzato solo in caso di necessità: non bisognerà costruirne di nuovi e gli interventi di ristrutturazione renderanno umani gli attuali penitenziari. Il territorio sarà maggiormente presidiato, spostando risorse dall’azione repressiva a quella preventiva. La diminuzione fisiologica dei reati porterà risparmi diretti ed indiretti (spese sanitarie, spese sociali, spese processuali).
Insomma, caro Ministro, se è questo che voleva intendere, continuerà ad avere il nostro sempre più convinto appoggio.
Nel salutarla cordialmente mi auguro di poterla incontrare quanto prima. Buon lavoro.
Roma,6.12.11 Luigi Muro